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Antonio Fogazzaro

Antonio Fogazzaro

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Piccolo mondo moderno

Piero ha la debolezza morale dell’uomo fogazzariano, ma predestinato alla vocazione, Jeanne è tentatrice, tormentata e scettica. Al lettore resta il dubbio che i suoi atteggiamenti siano sinceri e orientati verso l’elevazione dello spirito, piuttosto che la perversione. L’amore tra i due è una combinazione di attrazione e ripulsa. Val la pena di focalizzare l’attenzione su alcuni elementi della natura che, è proprio il caso di sottolineare, interagiscono col personaggio. Per esempio, il giardino di Villa Fogazzaro Roi Colbachini (“Villa Flores” in Piccolo mondo moderno) a Montegalda è protagonista dell’incontro tra don Giuseppe, padre confessore di Piero Maironi e la suocera di Piero, la marchesa Scremin, “addolorata e stanca”, il giardino come luogo ideale per la loro silenziosa comunicazione:

Limpidi ricami di note intorno al mover pacato di una melodia tranquilla, né lieta né triste, avrebbero potenza di esprimere quell’inafferrabile interno che sfugge al poeta nel dire l’andar lento di don Giuseppe e della marchesa per l’erbe tutte vive di vento nell’ombra chiara delle nuvole argentee, fra le macchie tutte bisbigli di frondi, rotti dalle note insistenti e gravi, dalle volate acute degli usignoli. I due non si scambiavano, quasi, parola; e appunto la sola musica potrebbe dire il loro silenzio pieno di senso, le comunicazioni non inconscie delle loro anime, comunicazioni di pietà vicendevole, pensando la marchesa come il vecchio prete, con soave poesia di speranze, avesse preparato ai suoi cari, discesi poi nel sepolcro, tanta bellezza di cose; pensando don Giuseppe quanta bontà fosse nella donna addolorata e stanca che per essergli cortese mostrava interesse al suo giardino; blanditi l’una e l’altro, nel cuore, da un’ultima dolcezza terrena, da un gentile compiacimento della bellezza.

Passando ai fiori: le rose di “Villa Diedo”, ovvero Villa Valmarana ai Nani a Vicenza, sotto la luce della luna, sono le vivaci e seducenti interpreti, con il loro movimento avvolgente e scomposto, dei fremiti di passione carnale di Piero, sono protagoniste di un invito alla tentazione del giovane per Jeanne, ammantata dello stesso colore della terrazza: il bianco, simbolo di purezza, che accende il desiderio del proibito.

Jeanne, ritta dietro la balaustrata, chiusa in un mantelletto bianco, rispose al saluto rispettoso di Piero: “Che bravo!” e sorrise. Piero salì sulla terrazza con il cappello in mano, con un sorriso troppo simile al sorriso di lei che gli veniva incontro. Era magnifica, nel chiaro di luna, la terrazza di marmo bianco, protesa dal piano signorile della villa, porgente lo scalone al giardino, sommersa la balaustrata nel furioso assalto del roseto, in una scarmigliata pompa di fogliame denso, di grandi occhi carnei, di lunghe frondi mobili ai fiati vagabondi della notte. Era magnifica con il suo arco di bellezza in giro alle tre fronti, via via dagli umili oscuri piani del settentrione al radiante chiarore del cielo sopra la città illuminata. “Perché non si resta qui?” disse Piero con voce sommessa, come se le parole innocenti potessero tradire a qualche orecchio curioso il suo desiderio di un’ora beata in quel solingo incanto di marmi e di luna, fra le rose inquiete, accennanti un voluttuoso invito.

Di nuovo le rose di “Villa Diedo” (Villa Valmarana ai Nani a Vicenza), voci che danno suggerimenti altalenanti tra passione e tormento:

Appena un sottile orlo di argento del rossastro globo lunare brillava ancora quando i due risalirono sulla terrazza oscura. Si sentivano sì e no nell’aria inquieta e buia gli aliti delle rose come voci di desiderio e di pena. Si vedevan sì e no le frondi porgersi in qua e in là come braccia di ciechi brancolanti. Nel chinarsi per volgere la poltrona verso il ponente ove la luna scendeva, Piero sfiorò con le labbra una spalla di Jeanne.

Quindi Vena di Fonte Alta, nella realtà, Tonezza del Cimone. La nebbia è un’attrice che fa estraniare Jeanne dal mondo terreno, la spinge morbidamente in un mondo di purezza. La nebbia riverbera proprio quel desiderio profondo di vita insieme a Piero ma anche il presentimento sulla loro unione solo spirituale.

Un velo era sceso sullo smeraldo dei prati, le ombre degli alberi si erano sciolte nel chiaror diffuso del sole nascosto, il nebbione fumato su dalle valli, si riversava lento per gli alti grembi di Vena, per le vette delle selve, affiochiva nei pascoli i suoni sparsi dei campani, fasciava le pendici nereggianti di Picco Astòre. A Jeanne pareva che un bianco mantello umido venisse avvolgendo silenziosamente lei e Piero, sul prato soffice, dentro le sue lane flosce, venisse dividendoli pian piano dal mondo delle cure umane, dal passato, dall’avvenire, spirando loro il dolce senso di essere anime d’un altro pianeta. Sentì che giungeva un’ora suprema, che erano in giuoco non tanto la felicità propria e le proprie sorti, che importavano mai?, quanto le sorti, la felicità dell’amato, illuso da funesti sogni. Gli passò timidamente una mano sotto il braccio, mormorò: “Ti dispiace?”. E benché il “no” di lui sonasse freddo, gli serrò forte sul braccio la bella persona. ‘Caro!’ diss’ella.

Dopo il momento topico, torna la nebbia inebriante che poi si dissolve per lasciare posto all’entrata in scena della montagna maestosa, proprio la montagna sembra confermare il presagio di Jeanne sull’impossibilità dell’amore terreno con Piero:

Lentamente lentamente, il viso del giovane si accostò al suo che lentamente lentamente si disponeva, si porgeva grave all’incontro.
Allora le due anime salite sulle labbra si dissero tale una cosa che poi, quando le labbra si disgiunsero, gli occhi non sostennero a guardarsi. Altre volte Jeanne e Piero si erano incontrati senza parole in quel pensiero segreto, ma ostilmente. Ora non fu così. Ora la donna sentiva che vi era un ripugnante modo di trattenere il suo amore per sempre; l’uomo sentiva che vi era un dolce modo d’incatenarsi per sempre e che lei non era più tanto ferma nella sua resistenza.
Ambedue, attratti e respinti, trepidavano.
Intanto si era levato un vento molesto che soffiava loro la nebbia in viso.
Si avviarono verso Rio Freddo, lei camminando avanti, in silenzio, col senso dello sguardo fisso di lui, volgendosi con un sorriso quando lo sentiva tanto forte da soffrirne. Poco a poco la nebbia si aperse, apparve a destra, nero, imminente, il tragico Picco Astòre.

Per ultima, in questa carrellata di immagini, la montagna: Vena di Fonte Alta è in realtà Tonezza del Cimone 5 ore dalla città: 2 di ferrovia e 3 di vettura, 1000 metri sul mare, boschi di abeti, boschi di faggi, solitudine, quiete. Introdotta da Fogazzaro inizialmente con sembianze zoomorfe poi mitigate da un amorevole senso di familiarità con il luogo.

Lo sperone che porta Vena di Fonte Alta si protende dalle radici di Picco Astòre a fronteggiar con due corna il gran cavo di Villascura. Lassù nella loro cintura di abissi ondulano supini al cielo i pineti e i faggeti di Vena, macchiati di smeraldo chiaro dove il prato li rompe e dilaga, picchiettati di rosso e di bianco dove stormi di casucce si annidano. Chi li contempla dall’alto dell’alato Picco Astòre o delle grandi montagne nubifere di Val di Ròvese e di Val Pòsina, non legge il loro minuto poema squisito.
Ma il viandante vagabondo per sinuosi lor grembi si domanda se ivi non siansi amate un momento, sull’aurora del mondo, meste Intelligenze delle montagne e gaie Intelligenze dell’aria; se la terra obbediente ai loro mobili sensi non siansi composta e ricomposta intorno ad esse in talami oscuri, in scene di riso, di alti pensieri e di scherzi, che poi fermate al repentino sparir degli amanti abbian serbato per sempre l’ultima forma. Ogni cosa vi ha l’impronta di un sentimento.

Piero lascia Vena per l’aggravarsi della malattia della moglie, il panorama scorre veloce. Il paesaggio variamente declinato, depositario di tanti segreti, spinge Piero a un esame di coscienza al ritmo della brenna e suscita presentimenti e aspettative tristi.

Giù giù nelle tenebre, al trotto di una brenna, sopra un biroccino sconquassato, accanto a un compagno muto, spariscono in alto per sempre i boschi, i pascoli con i sentieri, le macchie e le fontane che tanto sanno, sparisce Picco Astòre; giù, giù sotto le stelle pure, per una costa ignuda, per nere strette di capanne; sparisce in alto, per sempre, la casa dove dorme Jeanne, inconsapevole; giù, giù al trotto stanco della brenna, per un fitto di faggi addormentati, per avanguardie di radi abeti veglianti, per orli di baratri; giù giù con l’orrore di aver cupidamente pensato al tradimento, giù, giù, dal vento freddo delle alture nell’aria sempre più afosa, con la visione di tutta la triste sua vita.

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