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Antonio Fogazzaro

Antonio Fogazzaro

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Leila

E’ l’ultimo romanzo di Fogazzaro, ambientato a Velo d’Astico. Il protagonista maschile, Massimo (richiama la figura dell’amico discepolo Tommaso Gallarati Scotti) ha caratteri di incoerenza e inquietudine, mentre Leila (l’amica Agnese Blanck) esprime, nonostante la giovane età, punte di orgoglio e sensualità repressa.
Leila, oltre che orgogliosa, è anche coraggiosa, intraprendente e duplice: assume parvenze di Sfinge impenetrabile e di dolce creatura indifesa, ma alla fine sarà l’unica delle protagoniste dei romanzi fogazzariani a simboleggiare, come futura sposa, l’ideale cattolico di famiglia.

Fogazzaro non manca mai di coinvolgere il lettore in un percorso, benché segnato dai tormenti, dal dolore e dal sacrificio, che tende sempre a un destino ascensionale, verso un Bene superiore: dal silenzioso sacrificio di Elena, alla missione di Daniele e Piero, fino all’annunciato matrimonio di Leila come continuità della vita.

In Leila, quando Massimo arriva a Velo d’Astico in treno da Milano, le montagne gli donano un grande senso di ristoro:

Il sopracciglio, appena curvo, del Toràro tagliava lo sfondo aperto fra i due grandi profili neri della Priaforà e del Caviògio, discendenti con maestà l’uno incontro all’altro, simili a manti di giganteschi sovrani. Era una scena di pace pensosa, rispondente alla sete dell’anima sua.

La roccia aumenta in Massimo lo stato di ebbrezza per amore:

Leila si era improvvisamente seduta al piano, aveva suonato Schumann. Ferma nel cuore un’acuta dolcezza, egli aveva seguito la deliziosa musica guardando in alto una piccola obliqua punta di dolomia perduta nei vapori azzurrini del cielo, un aereo profilo di sogno. E adesso cercava rievocare quel momento inenarrabile, richiamare i tocchi delicati del capriccio musicale dolcissimo, la visione della punta di dolomia perduta nel vaporoso sereno, una punta di passione, lanciata su, fuori del mondo, cinta di abissi e di cielo.

La voce del ruscello alla Montanina (la villa di Fogazzaro a Velo d’Astico) attira Leila, in un momento di follia notturna, la giovane donna si immerge in acqua come per purificarsi dei pensieri su Massimo.

Leila prese a sinistra di certo sentiero uscente dal viale a un folto di acacie dove corre il rivoletto che poi salta e suona. Lo trovò, si fermò tra le acacie, sul margine del rivoletto che udiva senza vederlo. All’invito della voce blanda cominciò, come per istinto, a spogliarsi. Accortasi di quel che faceva, sostò. Saggiò l’acqua colla mano.
Era fredda. Meglio, le farebbe bene, così fredda.
E continuò a spogliarsi, senza nemmanco vedere dove posasse le sue robe.
Pose il piede nella corrente, rabbrividì.
Vi pose anche l’altro piede e, stretta il cuore dal gelo, chiusi gli occhi, semiaperte le labbra, calò piano piano, con piccoli gemiti, si adagiò, si distese.
L’acqua le corse via intorno alla persona, tutta carezze gelide, le fluì tutta piccole voci soavi intorno al collo e sul petto ansante. Le si faceva meno e meno gelida.
Altre voci soavi sussurrarono per l’aria.
Leila aperse gli occhi, si drizzò a sedere stupefatta.
Vide se stessa bianca, vide un chiaror diffuso su l’acqua tremula, i margini, le sue vesti, nella selva che moveva le vette argentee, mormorando, al vento.
Era un misterioso destarsi delle cose nel cuore della notte. Dalle acacie piovevano fiori sul ruscello.
La fanciulla si compresse il petto colle braccia incrociate, gemendo di uno spasimo dolce che le gonfiò il petto di lagrime.
Lagrime e lagrime le caddero silenziose nell’acqua tremula, lagrime ardenti dell’anima rapita nel divino incanto. Risalì sul margine del ruscello, si vestì alla meglio e, battendole a furia il cuore, discese in fuga la via col senso di un naufrago che si salva.

Gli alberi suggeritori tirannici ma poi consolatori delicati per l’inquieta Leila:

Leila uscì in giardino per la veranda aperta, si sforzò di pensare alla fuga di don Aurelio. Ma gli stessi alberi presso i quali passava, gli abeti davanti alla scuderia, le betulle presso il cancello parevano dirle col loro rigido silenzio: ‘Non è questo che ti sta a cuore, è un’altra cosa che noi sappiamo e non diciamo’. Ella affrettò il passo per liberarsi dalla ossessione della loro chiaroveggenza. Giunta fra i grandi castagni, sull’erta, dovette rallentarlo. E allora i grandi castagni bonari, dalle pietose braccia sparse, le mormorarono: ‘Povera, tu dicevi no all’amore di Massimo quando gli altri dicevano sì. Adesso che il signor Marcello dice no anch’egli, povera, non sai più dirlo tu, non ne hai più la forza, vorresti dire sì e nessuno te lo domanderà più mai, povera povera povera’.

Poi è il momento del vento: Leila, accompagnata dal vento, nervosa ed emozionata, legge la lettera scritta da Massimo a donna Fedele e si scopre citata con appassionante coinvolgimento dal giovane.

Lasciata la strada, Leila si arrampicò a sinistra fra i rododendri fioriti. Seduta lassù, sola figura viva nel gran deserto ventoso, andò strappando fiori, se ne raccolse un piccolo fascio in grembo, vi tenne su a lungo le mani immobili, gli occhi, il pensiero. Poi, fredda quanto potè, cavò la lettera, si fece forza per non correrla in cerca del proprio nome, lesse dal principio, lentamente.
Una nube le oscurò la vista, ella si sentì come una festuca in un gran vento.
Rilesse le parole appassionate di Massimo, più e più volte, le baciò e le ribaciò. Finalmente si ripose la lettera in seno, col respiro profondo di chi riposa sulla meta dopo un disperato sforzo dei muscoli. La gioia le si dilatò dalla vita del cuore alla vita dei sensi. Godette il vento freddo che le batteva in viso, godette la scena selvaggia e grande delle montagne di faccia, dalle fronti ardenti nel sol cadente. Godette l’ondulare dei rododendri presso a lei.

Infine è il momento dei fiori; i petali e i profumi dei fiori del giardino della Montanina hanno per Leila parole tenere, avvolgenti:

Leila si era empita la camera, per la notte, di rose, di fiori di madreselva e di acacia. Era una sua mania. Si faceva portare in camera quanti fiori poteva, prediligendo gli odori più acuti. Quella sera ne aveva un mare. Infisse più fasci di acacie fra la spalliera del letto e la parete, un fascio di rose fra la parete e la immagine sacra. La sua delizia, stando a letto, era di sentirsi cadere sui capelli, sul viso, petali di fiori. Spense la luce, si coricò sul fianco ascoltando le fragranze come parole mute, carezzevoli, di vite amorose.

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