L’ebbrezza del camminare
[…] questo è il viaggio a piedi: l’imprevisto, l’inatteso e, nello stato di fragilità e di dipendenza in cui si pone chiunque vi si abbandoni totalmente, l’incredibile catena di cause e di coincidenze casuali, e la ricchezza degli incontri che a esse sono legati. […] Per me, il vero senso del viaggio, e in particolare del viaggio a piedi, sta nello sforzo personale che consiste nel mettersi in armonia con il mondo, la natura e gli uomini. […] Infatti il camminare è innanzitutto un percorso di sincerità, per le rinunce cui obbliga e per la sua essenzialità. […] è giocoforza constatare che la diffidenza delle città non ha contaminato la campagna, che l’ospitalità è in genere spontanea, che le porte e i cuori si aprono molto più spesso di quanto non si chiudano. Che il viaggiatore a piedi, portatore di sogni e di avventure, riceve molto più di quanto dà [..]”
Emeric Fisset, L’ebbrezza del camminare, Edicicloeditore, 2012
Quando si va verso un Obiettivo…
Quando si va verso un Obiettivo è molto importante prestare Attenzione al Cammino. È il Cammino che ci Insegna sempre la Maniera Migliore di Arrivare e ci Arricchisce mentre lo percorriamo…”
Paulo Coelho
Che cosa importa l’esito del cammino…
Che cosa importa l’esito del cammino se ciò che conta è solo il fatto di averlo percorso? Non siamo noi che facciamo il viaggio, è il viaggio che ci fa e ci disfa e ci inventa”
Da “il mondo a piedi” di David Le Breton
Gli uomini camminano sempre meno…
Gli uomini camminano sempre meno, sono diventati sgraziati, si muovono curvi sui loro telefonini, hanno il collo storto per l’abuso del computer, le spalle rovinate dall’utilizzo del mouse, lo stomaco contratto dallo stress e la testa piena di segnali e rumori di fondo…
… La nostra testa è cambiata. L’uomo che non cammina perde la fantasia, non sogna più, non canta più e non legge più, diventa piatto e sottomesso, e questo è esattamente ciò che il Potere vuole da lui per governarlo senza fatica, derubarlo di ciò che Dio gli ha dato gratuitamente e bombardarlo di cose perfettamente inutili a pagamento.
Chi cammina, invece, capisce, parla con gli altri uomini, li aiuta a reagire e a indignarsi contro questa indecorosa rapina che ci sta impoverendo tutti quanti. Il semplice fatto di mettere un piede davanti all’altro con eleganza, di questi tempi, è un atto rivoluzionario, una dichiarazione di guerra contro la civiltà maledetta dello spreco.”
Paolo Rumiz – ” A Piedi”
Camminare non dà dipendenza…
Camminare non dà dipendenza. Camminare non è importante. Camminare non serve a niente. Pensaci bene: sei andato a piedi dalla porta di casa a quella dell’ufficio (per risparmiare tempo e benzina), dalla stazione dei treni all’hotel (per risparmiare i soldi del taxi), al matrimonio del tuo amico (per non stropicciare il vestito in macchina), al funerale del tuo amico (per lo stesso motivo), nel parco (per bruciare calorie). Sei andato a piedi migliaia di volte nella tua vita. C’era sempre una ragione per andare a piedi. Un risparmio, un guadagno, insomma, una convenienza.
Il cammino, invece, dà dipendenza. La dà perché in cammino vai, como scrive Jabès, a cuore aperto fino all’uomo. La dipendenza non è data dall’andarci a piedi, ma dal cuore aperto, cioè il come, e dall’uomo, cioè il fine. Non c’è alcuna utilità in questo atto. Anzi, non puoi che riceverne un danno. Ci sei tu, a petto aperto, con tutto ciò che ne consegue. Nel petto potrebbero infilarsi rondini, gazzette, cormorani, anguille, pesci siluro, fiumi interi, litorali con pinete frangivento, golfi e mari e così via. Nel tuo petto aperto può entrare chiunque e qualunque cosa. Sei alla mercé del mondo, sei fragile, distruttibile. Vai verso l’uomo. Quale uomo? Per portargli o dirgli cosa? Nulla. Non ti viene richiesto nulla. Non porti doni o offerte. Porti il tuo petto aperto, con tutto ciò che ne consegue. Quell’uomo, se lo troverai, e se ti accoglierà, farà di te ciò che vuole.
Questo è il cammino, questo crea dipendenza. Questa dipendenza è fortissima. Quando torni da un cammino, la senti dentro e addosso, vorresti strapparti la pelle, staccarti la testa pur di non sentirla più, ma non c’è niente da fare. Allora esci, senza aver ancora disfatto lo zaino, e vai a camminare. Ti sembra, al momento, di stare meglio. Torni a casa e la voglia di strappare la pelle e tagliare la testa sono intatte. Così capisci che camminare non serve a niente. Che sei dipendente da altro. Ti tornano alla mente le chiacchierate sugli argini impestati di zanzare. Le notti insonni in camerate umide e affollate. Il signore di novant’anni che hai incontrato sulla vecchia Romea, appoggiato al muretto, che ti ha raccontato di quando è saltato da un treno tedesco e se l’è fatta tutta a piedi fino al Polesine. Ti tornano in mente, prima ancora dei paesaggi, le persone che hai incontrato. E capisci che erano quelli gli uomini a cui hai portato il tuo petto aperto. Che ognuno di essi ha preso una parola, l’ha chiusa in un pugno, poi il pugno è entrato nel petto, la mano si è aperta, la parola s’è ficcata dentro. Tu sei pieno di parole. Di voci che riecheggiano nel petto e nella pancia e nella testa, non nei piedi. Nessuna camminata eliminerà quelle voci. Camminare non serve a niente. Camminare e cammino non sono la stessa cosa.
Ti è capitato di lamentarti, durante il cammino, perché altri avevano il letto e a te toccava il pavimento. Ti sei arrabbiato perché altri, a tavola, mangiavano porzioni più grandi delle tue, o perché altri hanno usato i soldi della cassa comune per prendersi della frutta solo per loro, o anche solo un frutto o una birra in più. Oggi, che sei a casa, ti rendi conto che del letto non sai che fartene, che hai un sacco di cibo in frigo che andrà a male e che la cassa comune, anche se imperfetta, è sempre meglio del mors tua vita mea in cui vivi. Ora capisci che non aveva senso lamentarsi, che ci vuole tempo per allontanarsi da sé, e che solo allontanandosi da sé si può andare verso l’uomo che ti aspetta per mettere le sue parole nel tuo petto. Ciò che crea dipendenza è proprio questo movimento di fuga dal proprio egoismo, dalla propria vita ristretta e confinata, da una solitudine che in cammino non hai mai provato. «Solitari, / ma non soli», dice Petr Král. Eccola là, la dipendenza da una forma di vita comunitaria e solitaria allo stesso tempo, in cui il denaro non conta perché non si conta e non si conta perché non conta, in cui si progredisce come esseri umani rapidamente e visibilmente, e in cui non si riesce a non essere allegri, a non ridere nella tormenta, a non godere in continuazione di ciò che si vede e di ciò che non si vede. La domanda la conosci già: come fare a mantenere il petto aperto, le parole in vita, ad allontanarsi da sé, ad andare verso l’uomo, a restare in cammino al di là dei propri piedi?”
Edmond Jabès, Poesie per i giorni di pioggia e di sole e altri scritti
Si nasce non soltanto per morire, ma…
Si nasce non soltanto per morire, ma per camminare a lungo, con piedi che non conoscono dimora e vanno oltre ogni montagna…”
Alda Merini, camminando sul Naviglio
Quando cammino in un bosco, sento…
Quando cammino in un bosco, sento di diventare gradualmente un tutt’uno con l’ambiente che mi circonda. Come se il corpo non finisse con le punta delle dita. Col passare delle ore si espande sempre di più nell’erba, l’erica, gli alberi e l’aria. Se un uccellino si è spezzato un’ala o un animale è senza cibo, sento un po’ del loro dolore. In quei momenti mi sembra di essere parte di qualcosa molto più grande della mia quotidianità di lavoratore, contribuente e padre di famiglia. Non sono mosso dal desiderio di abbandonare questi ruoli, ma dal bisogno di appartenere a quel qualcosa di più grande.”
E. Kagge “Camminare”